Cos'è esattamente un essere cosciente? Dal corpo all'entità sensibile
Il fattore soggettivo nel "ritagliare" elementi per definire l'identità
Avevo menzionato di voler dedicare un post all'identità ed è giunto il momento (e pare mi servirà una serie di post che indagheranno in particolare il fenomeno della coscienza). Il concetto di identità dipende dalla parte di realtà che vogliamo indicare. Quindi può essere molte cose e non c'è un modo definitivo per dire quale definizione va scartata e quale va accettata, dipende molto dal nostro senso di appagamento di fronte alla domanda.
Inoltre, nella realtà attorno a noi, senza esseri viventi che classificano cose per utilità personale, il concetto di unità è molto relativo e forse quasi nemmeno esiste. Possiamo vedere un fiore nel prato, ma dal punto di vista fisico, i petali, il fiore, le radici, l'erba attorno al fiore sono tutti costituiti da cellule vegetali e molecole organiche. Dove inizia e dove finisce il fenomeno "fiore"? Potremmo considerare le relazioni da cui esso dipende, ma molto presto finiremmo per dover includere il terreno con i nutrienti, gli insetti impollinatori e addirittura il sole. Potremmo voler essere più specifici e considerare il fiore come un'approssimazione, quel che conta sono le singole cellule vegetali viventi in termini di "unità effettive", ma rischieremmo di dover scendere alle molecole e poi agli atomi e poi alle particelle subatomiche per parlare di "unità effettive" (in contrapposizione a "unità convenzionali"). Perché non dovremmo farlo? Solo perché sono particelle via via più lontane dal nostro piano di esperienza? Sarebbe nuovamente il punto di vista umano a stabilire un confine tra "unità effettive" e "unità raggruppate per convenzione".
Accettando che senza esseri coscienti il concetto di "unità" non esisterebbe, è interessante il fatto che se siamo in grado di distinguere tante unità nel mondo attorno a noi, è perché in primo luogo distinguiamo noi stessi da ciò che ci circonda: "io" ed "altro". Se non fossimo in grado di compiere questa prima distinzione che, dal campo della psicologia e della pedagogia, sappiamo che il bambino impara a fare progressivamente e all'inizio non ha coscienza di sé stesso come qualcosa di distinto dalla madre e da ciò che vede direttamente, lo dovrà imparare. Solo con questa premessa concettuale "io ed altro" si possiede un principio per distinguere "questo" e "quello". Mi dilungo su questo sfondo concettuale perché ha certamente un peso nel concetto di identità. Non sarà mai un concetto prettamente fisico da scoprire facendo esperimenti, ma manterrà un carico di soggettività per cui nessuno in via oggettiva potrà dire che sono sbagliate certe definizioni e vanno necessariamente fatte altre scelte.
Dunque, userò il mio punto di vista ed il mio senso di soddisfazione "conoscitiva" in merito alla mia identità. E vorrei fare un percorso per considerare diverse possibili definizioni e dire perché non mi soddisfano. Con la consapevolezza, che volendo potremmo benissimo abbracciare ciascuna di queste definizioni ed accettarne le conseguenze. Se passerò ogni volta alla prossima definizione, non è perché sia impossibile da mantenere, semplicemente non la trovo personalmente soddisfacente. Mi aspetto anche che qualcuno possa sentirsi appagato con definizioni che qui "scarto".
Legare l'identità al corpo
Una possibile semplice e pratica definizione di identità consiste nel credere che "ciò che si è" consiste nel proprio intero corpo fisico. Sappiamo che il corpo è fatto di tante cellule e ciascuna muore in tempi relativamente brevi e viene sostituita da altre. Quindi, applicando questa definizione, quello che caratterizzerebbe l'identità sarebbero le relazioni tra le cellule, i tessuti, gli organi, dato che tutto si rinnova e solo le relazioni si conservano (entro certi margini di variabilità). Questo ci sposta da un piano fisico materiale, ovvero "cellule ed organi", ad un piano fisico relazionale, ovvero in cui la materia prima è secondaria ma è fondamentale come è organizzata. Se potessimo clonare un corpo, comprese le relazioni neurali nella corteccia cerebrale, avremmo due identità uguali? e se potessimo avere un androide che ripropone tutte le caratteristiche di interesse e la memoria del soggetto, ma con materiali differenti, avremmo clonato l'identità di una persona?
Difficile rispondere, però intanto la materia prima non sembra essere in grado di caratterizzare la nostra identità, piuttosto lo fanno le relazioni interne e queste sono, da un punto di vista fisico, più astratte rispetto a particelle, molecole e cellule. Inoltre, le relazioni che caratterizzano il corpo, non sono tutte sullo stesso livello, ma alcune sono molto più caratterizzanti per la nostra identità, altre lo sono molto meno o per niente. Per esempio, è molto improbabile (seppure non impossibile) che qualcuno ritenga che l'identità di una persona sia differente a seguito dell'asportazione delle adenoidi o della perdita di un dito. Sono eventi che cambiano il corpo e vanno oltre la semplice rigenerazione cellulare, però continueremmo a interagire con quella persona come se fosse sempre la stessa. Questo ci fa percepire buona parte del corpo come strumento a nostra disposizione e non come parte della nostra identità che sembra essere più profonda e circoscritta.
Legare l'identità al cervello
Cercando di individuare le relazioni più caratterizzanti per la nostra identità, potremmo immaginare un corpo a cui viene tagliata una gamba, un braccio, eseguito un trapianto di organo, utilizzato un organo artificiale al posto di un altro naturale, ecc. Abbastanza presto si individua il cervello come organo che è maggiormente legato all'identità della persona e, ad oggi, non sostituibile. Lo stesso cervello è composto di tanti centri, aree, strati e per quanto non è ancora chiaro dove la coscienza risulta esattamente circoscritta, un ruolo principale sembra svolto dalla corteccia cerebrale che funziona in particolare durante gli stati coscienti (o durante i sogni), conserva la nostra memoria e la nostra descrizione di noi stessi sia come corpo che come identità.
Legare l'identità alla memoria
Un altro approccio che colloca l'identità nel cervello, ma diventa più specifico del precedente è legare l'identità alla nostra memoria. Un punto di forza di questo approccio è che incide sul controllo sperimentale dell'identità. Mi spiego meglio, se a una persona, che conserva il cervello ma ha subito una menomazione nel corpo, chiediamo "come si chiama", se può raccontarci la sua storia, che cosa gli è successo che lo ha portato per esempio a perdere un arto, ecc., questo soggetto ci risponderà e l'interazione con la sua identità non risulterà intaccata. Ma nel caso in cui una persona ha perso la memoria e non sarà in grado di dirci come si chiama, che lavoro faceva, qual è la sua storia, cosa stava cercando di realizzare nel recente periodo, ecc., in tal caso, potremmo credere che la stessa identità sia stata temporaneamente o permanentemente persa o almeno seriamente alterata.
A rafforzare questa visione ci sono anche esperimenti mentali in filosofia, messi in scena in alcuni film, per cui il cervello di un personaggio famoso, per esempio Einstein, viene riprodotto nella memoria di un computer, e principalmente abbiamo proprio la conoscenza e l'esperienza registrata dal cervello alla macchina come aspetto che viene replicato. Inserendo degli input, come una voce che arriva al cervello, come in vita arrivava tramite le orecchie e poi sotto forma di segnali elettrochimici tramite i nervi, questo personaggio riprodotto, in teoria, non solo ci risponderebbe come avrebbe risposto la persona reale, ma date le conoscenze trasferite, crederebbe di essere veramente la persona simulata e non una simulazione. Poi magari avrebbe modo di scoprire che non ci vede più, che non riesce a muovere un corpo, ma questo è secondario: la simulazione crederebbe di essere una persona reale che ha perso la vista e magari che ha il corpo paralizzato a causa di un incidente, e soltanto noi dall'esterno sapremmo chiaramente che quella cosa che dice di essere "Einstein" non è Einstein.
A questo punto il fattore soggettività nel decidere che cosa stabilisce la nostra identità acquisisce un peso maggiore. Se fossimo convinti e soddisfatti che la nostra identità è la nostra memoria, non è così facile offrire una ragione definitiva per scartare questa visione dell'io. A me non soddisfa, quindi argomenterò il motivo per cui non lo ritengo un punto di arrivo. In primo luogo, la memoria cambia con il tempo, si acquisiscono nuove esperienze e ci si dimentica anche di tante cose secondarie. Quindi, compatibilmente con l'associare l'identità alla memoria, dovremmo prendere un sottoinsieme di tutta la memoria, qualcosa di maggiormente legato alla nostra storia personale, a chi crediamo di essere, a quali caratteristiche riteniamo di avere, ecc.
Però, anche in questo caso, nella nostra vita potremmo avere degli importanti cambi di credenze su noi stessi o sulla visione del mondo, per esempio, una conversione da una religione ad un'altra o all'ateismo, un grave insuccesso o un trauma che rimette in discussione ciò che credevamo di saper fare bene o che ritenevamo un aspetto caratterizzante per noi stessi. E da quel momento si potrebbe risultare effettivamente molto diversi per chi ci ha conosciuto. Se crediamo nell'identità basata sulla memoria potremmo dire "è cambiato tutto, non è più lui, è un altro". Però, è anche vero che la persona che prova sensazioni, emozioni, che ricorda entrambe le fasi della sua vita, è sempre la stessa, non tanto come corpo che cambia anch'esso come visto, ma proprio come coscienza.
Considerando un caso più estremo con l'amnesia globale transitoria o permanente con varie modalità, ma fondamentalmente un caso in cui parte della memoria legata alla conoscenza di noi stessi diventa inaccessibile o viene persa, bisogna tener presente che ciò che si perde è solo l'informazione. Se l'informazione è esattamente ciò che dà vita a noi stessi, come esseri coscienti con una propria identità, allora avremmo risolto il problema del fenomeno della coscienza. Basterebbe replicare queste informazioni in una memoria elettronica e avremmo fatto veramente il backup di noi stessi. O se potessimo configurare un secondo cervello umano come il nostro, non avremmo soltanto un clone, ma i due cloni avrebbero la stessa coscienza. Per quanto non possiamo fare questo esperimento per limiti tecnologici, attualmente quasi nessuno (mi aspetto) crederebbe di raggiungere la vita eterna scaricando la propria memoria in un disco, né ci aspettiamo che un perfetto clone, comprese tutte le connessioni cerebrali, sia davvero la stessa coscienza, forse non avrebbe affatto coscienza o forse sarebbe un altro fenomeno cosciente, ma quel qualcosa che nell'essere originale "sentiva", "provava", si emozionava, se dovesse morire ed un suo perfetto clone rimanere, l'aspettativa più comune (credo) sia ritenere quella persona, ed in particolare la sua coscienza, effettivamente persa.
Ho offerto alcuni esempi, tutti rappresentati in più di un film e solitamente nati in contesti filosofici, ma ora voglio esplicitare il motivo logico per cui la memoria o una parte speciale di essa non può costituire ciò che siamo. Il motivo è che la descrizione di ciò che siamo non è ciò che siamo. La descrizione è una informazione a nostra disposizione, ma non siamo noi. Nulla vieta di insistere con la credenza che noi siamo un costrutto concettuale basato su una parte speciale della nostra memoria, però a me non soddisfa perché il fenomeno per cui riusciamo a "sentire qualcosa", per cui "siamo coscienti" non è una informazione, è proprio un fenomeno diverso. Potremmo pensare ad un neonato che deve imparare ancora tutto di sé stesso e del mondo, la sua identità in termini di memoria è quasi nulla o simile a molte altre, però lui o lei già "sente qualcosa", prova emozioni, ha una coscienza e questa ritengo è la parte più caratterizzante di ciò che siamo, della natura della nostra identità, dunque non la memoria.
Un'ultima osservazione che voglio lasciare sulla memoria è che anche quando noi crediamo di essere qualcosa, quindi abbiamo una descrizione di noi stessi, questa potrebbe essere errata o drammaticamente incompleta e spesso si presentano questi casi. Un esempio facile è andare indietro di millenni nella storia umana e le credenze sul proprio corpo, sulla propria mente erano estremamente grossolane rispetto ad oggi e spesso proprio errate (non si conoscevano le cellule, credenze religiose erano spesso mescolate a ricerche mediche, a volte l'anima era un'idea strettamente legata alla resurrezione fisica del corpo, oppure l'anima collocata nella ghiandola pineale, con definizioni di anima che non avevamo mai una base sperimentale, la psicologia non è sempre esistita e, ignorando malattie mentali, spesso si immaginavano spiriti maligni a tormentare la mente di una persona malata...), eppure potendo arricchire ed aggiustare le conoscenze su ciò che si è, sul proprio corpo e la propria mente, quindi modificando la descrizione di noi stessi, cambierebbe appunto quella definizione, non ciò che siamo o ciò che erano quelle persone prima e dopo le nuove comprensioni.
Casi attuali più ordinari potrebbero essere quelle persone che hanno un'idea errata di sé, che si sottovalutano o si sopravvalutano, chi ha creduto che "essere nobili" nella storia recente avesse davvero qualcosa di speciale per la nostra identità, oppure tanti adolescenti che iniziano a farsi più domande su sé stessi e sulla società e sono in una fase esplorativa, correggendo o maturando l'idea che abbiamo di noi stessi, non significa cambiare identità (la coscienza dietro queste esplorazioni è sempre la stessa), né significa costruirsi (infatti esistevamo anche prima), nuovamente bisogna distinguere "ciò che crediamo di essere" con "ciò che siamo effettivamente". E potrebbe anche essere vero che la realtà su ciò che siamo, ci sfugga ancora così tanto, che forse quasi nessuno di noi si avvicina a cogliere ciò che siamo realmente. Potrebbe essere vero, in un senso molto riduzionista, come presentato nel libro "Anelli nell'io" di Hofstadter, che l'identità sia una sorta di illusione cognitiva basata sull'iterazione; oppure potrebbe essere vero, in un senso spinoziano, che la coscienza è un fenomeno che persiste dopo la morte ma senza l'identità personale; o magari la verità potrebbe essere vicina ad una delle concezioni orientali dell'io, dove nuovamente parte della nostra identità è comunque un'illusione, ma c'è qualcosa di più profondo che spesso si ignora ed è maggiormente relazionato con ciò che è attorno a noi e non così isolato come tendenzialmente lo percepiamo.
Legare l'identità al carattere
Sperando di aver fatto chiarezza tra quella parte di memoria che descrive ciò che siamo e la nostra identità più concreta, quel "ciò che noi siamo" per cui sentiamo di esistere con la nostra coscienza, posso fare ora un focus sul carattere. Il carattere è molto più difficile da inquadrare della memoria, perché la memoria sappiamo che indicativamente è collocata nel cervello (esiste anche una memoria emotiva non scritta nella corteccia cerebrale, ma sono dettagli che cambiano poco la sostanza), invece il carattere dipende dalle esperienze vissute, dalle fasi della crescita, dall'attività ormonale, dal generico stato di benessere o malessere del corpo, dalle attrattive e dalle repulsioni verso cibi, persone, comportamenti, argomenti, ecc. È così vasto l'insieme di fattori che hanno un'influenza diretta o indiretta sul carattere di una persona che risulta estremamente difficile inquadrarlo in modo completo.
Per aiutare a chiarire cosa intendo qui con "carattere", spiegherò prima cosa intendo con "comportamento". Il comportamento è ciò che esattamente una persona farebbe posta in una situazione, con determinare credenze sulla situazione e su stessa, con determinati parametri fisiologici (età, ormoni, fame, sazietà, benessere o patologie in atto, ecc.). Essa potrebbe rimanere paziente e cercare di risolvere un problema che le è stato posto, potrebbe mettersi a urlare furiosa cercando di scappare via, potrebbe mettersi a ridere, ecc. Questi sono esempi di comportamento che potrebbe assumere. Sappiamo anche, conoscendo una persona, che il comportamento di oggi, di domani, del prossimo anno e addirittura fra 10 anni ha una continuità. I tanti comportamenti che assumiamo giorno dopo giorno, situazione dopo situazione, non sono totalmente imprevedibili, ma anzi possiamo "conoscere una persona" e farci un'idea di come potrebbe reagire o come potrebbe prenderla. Per quanto non abbiamo un modello formale che data una situazione ambientale, fisiologica e mentale, ci permetta di inferire il comportamento che verrà assunto, è in linea di massima possibile immaginare un simile modello ed in parte ne costruiamo uno approssimativo ogni volta che iniziamo a "conoscere una persona", questo è ciò che intendo con carattere. Praticamente è un'insieme di regole comportamentali che tendono ad essere seguite da una persona.
Il carattere rispetto alla memoria, anche se è più difficile circoscriverlo ad un organo e descriverlo, tende ad essere più costante, è effettivamente più difficile cambiarlo e nella maggior parte dei casi, anche se c'è qualche mutamento, solitamente ci accompagna per tutta la vita. Questa caratteristica è piuttosto buona per cogliere l'identità di un individuo proprio perché l'identità dovrebbe essere qualcosa che rimane costante. A meno che non vogliamo accettare di morire e rinascere lungo il corso della nostra vita; cosa che potremmo fare, e Spinoza per esempio riteneva che il bambino che lui era un tempo era morto e progressivamente era nato un adulto che nulla aveva a che fare con quel bambino del passato. Ma, finché possibile, cercherei di trovare una costanza nella nostra identità. Per esempio, ho presente diversi anziani, in primo luogo tra parenti, che hanno avuto seri problemi di memoria, però il loro modo di agire e reagire emotivamente manteneva un'evidente continuità. Seguendo questo approccio potremmo diminuire il ruolo della memoria come elemento chiave dell'identità ed appunto focalizzarci sul carattere, ma data la profonda multifattorialità del carattere quasi rientra in gioco l'intero corpo di una persona, perché, come elencato, tanti sono i livelli che concorrono a definire il carattere a cominciare dai fattori ormonali e fisiologici.
La distinzione tra situazione, carattere e comportamento a grandi linee può risultare chiara, ma cercando di dettagliarla meglio mostra dei confini non ovvi. Per esempio, una credenza religiosa che ha qualche importante conseguenza sulla propria vita, fa parte della situazione o del carattere? Io la collocherei nell'insieme di fattori che definiscono la situazione, dato che una persona può teoricamente crescere in ambienti culturali diversi e ritrovarsi con credenze profondante diverse sull'etica, sulla vita e sulla società. La cosa curiosa è che credenze profondamente diverse possono portare a comportamenti profondamente diversi pur, in teoria, mantenendo costante il carattere. È questo grosso impatto sul comportamento che potrebbe far nascere il dubbio che forse certe speciali credenze dovrebbero far parte del carattere e non della situazione, ma credo che anche qui ci sia una certa arbitrarietà a seconda di come vogliamo aggiustare le definizioni.
Personalmente, preferisco mantenere il carattere più costante possibile, quindi, se non crea problemi logici, preferisco collocare qualcosa nell'insieme dei fattori della situazione, così tutta la memoria e le credenze e dunque il vissuto passato di una persona li considererei parte della situazione. Dunque nei casi di cambiamenti estremi di credenze, come un religioso che diventa ateo, o un attivista in qualche campo che non riesce più a credere in un risultato positivo per la sua causa, o un genitore che realizza di non avere più un controllo sui propri figli, sono tutti esempi che possono portare a comportamenti radicalmente diversi, ma non sarebbe il carattere ad essere mutato, bensì la situazione, in particolare la nuova descrizione della realtà che il soggetto ha iniziato a credere.
Prendiamo un altro caso spinoso. Una persona finisce per avere il diabete e questo, senza iniziare ad assumere le giuste cure, ha un impatto sulla gestione delle energie fisiche, sul malessere, sulla lucidità mentale e sull'umore. Dunque, gli squilibri ormonali dovremmo considerarli parte del carattere o parte della situazione? Nuovamente, non c'è un modo oggettivo di prendere una decisione, dipende da come definiamo uno e l'altro concetto. Siccome preferisco, finché possibile, cercare di trovare una costante in un essere umano, finché posso scaricare un elemento sulla situazione piuttosto che sul carattere, ovviamente lo inserirò nella situazione.
Sulla scia di questo approccio, è chiaro che l'età, gli ormoni in circolazione, la salute mentale o le patologie, l'energia in termini di zuccheri e grassi disponibili, la memoria e le credenze, e quasi ogni parametro fisiologico misurabile finiranno per far parte della situazione. Dunque che cosa farà parte del carattere? Sembra infruttuoso questo approccio perché tende a svuotare un concetto, si rischia di trovare regolarità tra situazioni e comportamenti ma non c'è più l'individuo, non c'è più il carattere (concetto svuotato) e avendo legato l'identità al carattere, di conseguenza abbiamo svuotato la stessa identità.
Non c'è nessun errore in questo approccio (o almeno è quello che credo) e la situazione estrema a cui siamo approdati non è paradossale. In qualche modo potrebbe essere un argomento a favore di chi sostiene che l'identità è solo un costrutto ed è, in ultima istanza, illusoria. Risulterò forse più chiaro con un esempio. Immaginiamo di avere due persone e di porle nella stessa situazione esteriore ed interiore. La situazione esteriore potrebbe essere la scelta dell'università a conclusione delle scuole superiori. La situazione interiore consisterebbe nel dotare le due persone dello stesso DNA, degli stessi ormoni in circolazione, di scrivere allo stesso modo le memorie nei loro cervelli, quindi avranno il ricordo delle stesse esperienze vissute, le stesse informazioni e credenze, ecc. Potrebbero dei fattori accidentali rendere le scelte leggermente casuali, ma sarebbe un tipo di variabilità non legata al carattere, quindi non interessante, per il resto sembrerebbe debba seguire lo stesso comportamento. In realtà, finché non facciamo un simile esperimento, che è molto fantascientifico, non possiamo realmente constatare se c'è qualche fattore che fa parte del carattere che non abbiamo considerato e che creerebbe diverse scelte significative ed intenzionali per l'esito finale.
Questo esperimento mentale ci porta comunque a due possibilità: 1) riprodurre la situazione interiore di due soggetti in modo che sia uguale e ponendo essi nella stessa situazione ambientale implica che seguiranno gli stessi comportamenti; 2) pur riproducendo allo stesso modo la situazione interiore, c'è qualcosa che ci sta sfuggendo del carattere che forse è più legato alla coscienza in un modo ancora non compreso e quindi avremo comportamenti diversi in virtù di quelle due diverse coscienze.
Nell'ipotesi 1, il concetto di "carattere" sarebbe veramente svuotato, non potrebbe essere usato come base dell'identità e fondamentalmente sarebbe definito dalle leggi fisico-chimiche che fanno funzionare gli esseri umani e che sono appunto uguali per tutti. Infatti, nell'ipotesi 1, non esistendo l'identità in senso personale, tutte le persone risulterebbero la stessa persona, con lo stesso carattere, "basterebbe" soltanto porle nella medesima situazione interiore ed esteriore, tante sono le diverse situazioni degli individui sulla Terra, e scopriremmo che a quelle condizioni tutti fanno le stesse cose. La percezione della propria personalità risulterebbe un mix di fattori accidentali e mutevoli che esiste in virtù di una storia registrata nel corpo ed in particolare nella testa, finché un evento traumatico non interrompe in modo irrimediabile questa storia (es. danni cerebrali, coma, morte). Il concetto di "io" sarebbe un concetto funzionale alla comunità di cellule che è il nostro corpo e risulterebbe più un'astrazione per semplificare un fenomeno complesso che necessita di tener traccia del benessere o del malessere complessivo, ma sarebbe un concetto che non può realmente applicarsi ad un qualche individuo.
Nell'ipotesi 2, proprio perché si menziona qualche fattore non compreso relativo alla coscienza, non ci possiamo ragionare sopra, possiamo giusto annoverare l'ipotesi in una generica categoria "altro" che dice quasi nulla su noi stessi. Questo non significa che non possa esistere questa possibilità, ma allo stato attuale (e forse per sempre) non si può nemmeno esplorare intellettualmente la seconda ipotesi.
Legare l'identità a quell'entità per cui percepiamo noi stessi e il mondo
Un'obiezione fenomenologica all'ipotesi 1, e con "fenomenologica" intendo "facendo esperienza del fenomeno della coscienza in prima persona", risulta difficilmente conciliabile la sensazione di sentirsi un individuo con l'idea che l'io sia un concetto astratto e senza una precisa controparte di realtà, ma funzionale all'intero corpo che "passa" questo concetto alle cellule future finché la catena di rigenerazioni non si interrompe con la vecchiaia ed infine con la morte. Anche prendendo per valida l'idea che l'io sia una finzione, sia una descrizione errata di ciò che siamo, sia un concetto evolutivo funzionale ed economico per un fenomeno fisiologico altrimenti iper-complesso, risulta pur vero che c'è qualcosa (esattamente ciascuno di noi) che vede tutto questo, che si sbaglia, che si illude o che anche vede qualcosa di vero, ma non può esserci illusione se non c'è nemmeno nessuno da illudere, altrimenti saremmo come macchine senza coscienza.
Il concetto funzionale di "io" potrebbe essere gestito anche da un software o da un automa e quindi avvalersi del principio di economia per cui è meglio valutare risorse e pericoli con un concetto semplificato, piuttosto che fare i conti con l'intera comunità di cellule (o di pezzi elettronici). L'io potrebbe essere una descrizione impropria o parzialmente allucinata che sotto altri punti di vista può funzionare in senso pratico. Tale descrizione può essere scritta in una memoria elettronica senza necessità di avere alcuna coscienza. Ma siccome noi abbiamo una coscienza ed è proprio l'aspetto più personale, non riproducibile, per cui sentiamo di esistere (qualunque cosa noi siamo), ritengo che occorre abbandonare i concetti di corpo, memoria, carattere per focalizzarsi esattamente su questo fenomeno: la coscienza.
Giusto per fugare ogni dubbio e ambiguità, con "coscienza" non intendo l'insieme dei principi etici o la parte di noi che ci fa esprimere giudizi sulle azioni nostre e altrui; né intendo speciali proprietà attribuibili principalmente alla specie umana come "essere coscienti di essere coscienti" o "essere coscienti di poter morire" o "essere coscienti in un senso intelligente", ecc. Semplicemente la possibilità di provare emozioni, percepire sensazioni, "sentire qualcosa". Questa proprietà semplice ed unica mi serve per indicare ciascun fenomeno cosciente, ciò include non solo tutti gli umani, ma certamente quasi tutti gli animali (non saprei se ciò include anche gli insetti o certe piante... ma sarebbe un altro argomento).
Il supporto della coscienza: l'entità sensibile
La proprietà di essere coscienti è una proprietà che certamente si applica ad un qualche oggetto di cui sappiamo veramente poco. Questo oggetto potrebbe essere una parte speciale del nostro cervello, potrebbe essere un fenomeno non appartenente alla fisica classica e poco compreso, senza usare troppo l'immaginazione, potrebbe essere tante cose. È utile dare un nome a questo oggetto perché è esattamente ciò che noi siamo e lo chiamerò "l'entità sensibile". Finora ho esaminato principalmente le possibili idee di identità, ma la descrizione di ciò che siamo, come già detto, è una cosa diversa rispetto a ciò che siamo. Quello che ho cercato di fare in questo percorso è raggiungere nel modo più diretto possibile, ancorato ad un fenomeno naturale, e con il minimo carico di teoria possibile, ciò che noi siamo a prescindere da ciò che crediamo di essere.
Personalmente non mi identifico con il mio lavoro, non so cosa sono (e non starei scrivendo questo post se non avessi molte domande su me stesso), non credo che la mia storia, per quanto incida su ciò che faccio, sia particolarmente illuminante sulla mia identità, non so se sparirò per sempre un giorno o c'è una possibilità di persistenza dopo la morte del corpo fisico, non mi è chiaro nemmeno tutto ciò che mi serve per vivere bene e quali siano i miei desideri. Infatti, ogni tanto scopro qualche nuova attrattiva o mi ricredo su altri interessi. Come io possa esistere e capire qualcosa di me e del mondo attorno a me è un fatto che lascia la mia mente senza parole e senza spiegazioni e in quel momento credo di non sapere proprio nulla. Poi inizio a indagare e trovo le parole per raccontare qualcosa, ma la ricerca non è finita. E per quanto mi riguarda, potrei essere qualsiasi cosa, e a mala pena ho un'idea di come funziono.
Chiusa la parentesi personale, spero ci si possa accostare all'entità sensibile (che ciascuno di noi è) attraverso l'aggancio della proprietà "poter provare sensazioni, emozioni, sentire di essere qualcosa" che è una proprietà di cui si può fare esperienza solo in prima persona. Spero che non ci si confonda tra questo fenomeno e ciò che è in relazione ad esso: il cervello, la memoria, il corpo. Per esempio, è possibile che questo fenomeno sia tale per cui è parte essenziale del cervello e senza il cervello il fenomeno è perso per sempre, ma non è ovvio che sia così, bisognerebbe arrivarci tramite deduzioni più stringenti e servirebbe anche una spiegazione di come la materia organica, strutturata in un certo modo, possa dar origine ad una entità sensibile. Al momento non si dispone di nessuna spiegazione soddisfacente. Nel campo delle neuroscienze, al massimo, si è affrontata la questione del concetto di io, dunque dell'identità che descrive il corpo e la storia di sé stessi, ma come spero sia stato sufficientemente chiarito è un discorso, seppure interessante, fuorviante nel caso in cui siamo interessati alla coscienza come fenomeno e non a ciò che crediamo di essere.
La differenza tra identità personale e natura della coscienza
Il fenomeno della coscienza è un terreno spinoso e tutto risulta sfuggente, quindi è importante procedere con enorme precisione concettuale. L'intero post è fondamentalmente dedicato a definire la coscienza come un fenomeno dell'entità sensibile, tale entità è qui una conclusione, ma nel prossimo post sarà l'inizio di una riflessione che cercherà di elencare tutte le proprietà che possiamo conoscere con certezza di questa entità.
Ho distinto la descrizione dell'identità personale da ciò che realmente siamo, però c'è un'altra descrizione che non è personale, ma cerca di descrivere ciò che è comune a tutti noi e che consiste in ciò che siamo. Dunque, in ballo, c'è una seconda descrizione dell'identità che nasce mano a mano che cerco di capire meglio il fenomeno della coscienza, però non è personale, non sarà collocata in una parte del mio cervello (o non solamente), ma si potrà scriverla in questo post, si potrà condividerla tra esseri senzienti, sarà una descrizione collocabile in un campo di studi, come il modello dell'atomo o il principio di conservazione dell'energia, dunque sarà la descrizione della natura che tutti gli esseri, in quanto coscienti, hanno in comune e non la descrizione della propria personale identità cosciente.
Voglio dirlo un'ultima volta con diverse parole. Sono qualcosa (una identità cosciente o entità cosciente o entità sensibile), ho una certa idea di me stesso (descrizione dell'identità personale) ma potrebbe essere tutta sbagliata e ad un livello profondo non so cosa sono, come posso esistere, come posso essere cosciente, ecc. Quindi ponendo il massimo dubbio su cosa credo di essere, cerco di descrivere il fenomeno della coscienza, studiando me stesso in primo luogo (perché ho un accesso speciale a me stesso, rispetto ad altre coscienze che posso indagare solo indirettamente) e cercando fatti che possano applicarsi a qualsiasi essere cosciente, ed inizio così a costruire una nuova definizione di "essere cosciente" o "entità sensibile" (o il termine che preferite, attualmente definito da una sola proprietà "ciò per cui sentiamo e proviamo sensazioni"). Questa seconda definizione è frutto di uno studio, quindi non è personale ed anche la seconda definizione sarà sempre una definizione, quindi diversa da ciò che descrive, però ha il principale compito di descrivere al meglio l'oggetto a cui si riferisce ed è più libera, rispetto all'identità personale, di rimettere in discussione tutto, valutare diversi approcci, pur di aggiungere nuove conoscenze all'oggetto che vogliamo esplorare: noi stessi.
Commenti
Posta un commento